Una giornata per la libertà e la conoscenza
Il 17 maggio è la Giornata Internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, e nasce per ricordare un passaggio storico fondamentale: la decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 1990, di rimuovere l’omosessualità dall’elenco dei disturbi mentali. Questa ricorrenza rappresenta, oggi, un’occasione per riflettere in profondità su quanto sia ancora necessario promuovere una cultura del rispetto, della comprensione e della salute psicologica per le persone LGBTQIA+. Discriminazione e violenza, esplicite o latenti, continuano a segnare le traiettorie di vita di molte persone, generando un impatto negativo sul benessere sia soggettivo che collettivo. In questo panorama, il ruolo delle Università, e in particolare della ricerca scientifica, si rivela cruciale: non solo come spazio formativo, ma come motore di conoscenza, di analisi critica della realtà e di superamento degli stereotipi che ancora alimentano l’omofobia, la bifobia e la transfobia.
Le ferite invisibili della discriminazione
Uno dei concetti centrali per comprendere le implicazioni psicologiche della discriminazione è quello di minority stress. Secondo questo modello teorico (Meyer, 2003), le persone appartenenti a minoranze sessuali e di genere vivono un carico di stress aggiuntivo, cronico e sistematico, che non deriva dalle loro caratteristiche personali, ma dall’ambiente sociale ostile in cui si trovano. La risposta di stress è generata non solo da atti espliciti di discriminazione, ma anche dall’anticipazione del rifiuto, dalla necessità di nascondersi o di “correggere” la propria identità, fino all’interiorizzazione dello stigma. Tali dinamiche hanno effetti documentati sulla salute mentale, aumentando il rischio di depressione, ansia, ritiro sociale, disturbi da stress post-traumatico e suicidio. Comprendere questi meccanismi non è solo un atto di consapevolezza sociale, ma una responsabilità scientifica: è attraverso lo studio sistematico di queste esperienze che si possono costruire strumenti clinici, preventivi ed educativi realmente efficaci.
Il ruolo delle Università
L’Università, in questo senso, ha una funzione che va ben oltre l’inclusività simbolica. È il luogo in cui si produce sapere, si validano modelli teorici, si interrogano i dati e si decostruiscono i pregiudizi. Ogni ricerca condotta con rigore e rispetto sulle esperienze delle persone LGBTQIA+ è un passo verso una società più equa. È nella ricerca psicologica, ad esempio, che si è potuto dimostrare scientificamente come l’orientamento sessuale e l’identità di genere non siano patologie, e come l’atteggiamento della società incida profondamente sul benessere individuale. È grazie agli studi sull’efficacia dei percorsi di affermazione di genere, o sulle risorse psicologiche protettive delle persone queer, che possiamo oggi offrire interventi clinici informati, culturalmente competenti e non stigmatizzanti. La conoscenza scientifica ha anche un ruolo fondamentale nel contrastare la disinformazione. In un’epoca in cui i discorsi pubblici sulle identità LGBTQIA+ sono spesso polarizzati o distorti, è indispensabile che l’Università continui a produrre e diffondere dati solidi, fondati su metodologie trasparenti e su un’etica della responsabilità. Ricercare significa dare voce a vissuti lasciati ai margini, costruire linguaggi più precisi e chiari, e, infine, comprendere le differenze senza patologizzarle. Significa, in sostanza, umanizzare ciò che è stato a lungo reso invisibile o denigrato.
Celebrare il 17 maggio non significa solo denunciare la violenza e la discriminazione, ma anche affermare il valore del sapere come strumento di liberazione. Ogni progetto di ricerca, ogni tesi, ogni articolo pubblicato su questi temi ha il potenziale di cambiare il modo in cui si pensa, si cura e si convive.
A cura di Luca Daminato, Psicologo, Sessuologo, Docente del Corso di Laurea triennale presso la Sigmund Freud University.