I videogiochi vanno a soddisfare alcuni bisogni di base, quali la gratificazione, la capacità di superare la frustrazione della sconfitta e quindi di sviluppare una maggiore resilienza, la socialità, lo sviluppo di una propria identità.
Messaggio pubblicitario La relatrice parte dalla definizione di videogioco. La letteratura scientifica e il dibattito interdisciplicare ne offrono tante. Quella seguita nei suoi studi si rifà prevalentemente alla definizione di Tavinor (2008), “Definition of videogames”.
Nato come forma di divertimento, il videogioco è un ambiente simulato – sebbene percepito come reale – dove si svolgono narrazioni o storie interattive.
Come concordano molti colleghi della Dott. Carissoli (Imm. 1), ci sono tanti videogiochi che hanno numerose caratteristiche che possono essere messe a fattor comune con innegabili ricadute negative sui fruitori del video.
Imm. 1 Dott.ssa Claudia Carissoli
Ma non è questo aspetto il focus dell’intervento della relatrice, che cerca invece – attraverso ricerche ed esperimenti (dove c’è sempre un gruppo di controllo) – di scandagliare come i videogiochi possano migliorare il benessere degli individui. Molti sono i canali di questo effetto positivo: la migliore comprensione del Sé e delle proprie emozioni; la capacità di autogestire tali emozioni e quindi di irrobustire nell’individuo la capacità di autoregolamentazione e di resilienza all’ambiente; l’infittirsi delle relazioni sociali. Si possono incontrare infatti nuove persone con cui il gioco viene esperito, ci si confronta sulle emozioni provate, che possono essere diversissime fra soggetti, anche quando ci si confronta con lo stesso videogioco; attraverso queste interrelazioni personali, possono dunque crearsi nuovi amici. Ancora, la eventuale costruzione all’interno del gioco di un sistema di premialità e punizioni, porta l’individuo alla gratificazione e a una maggiore autostima se la condotta scelta nel gioco porta a un premio. Al contrario, strategie quali, ad esempio, la dominazione non viene premiata, con una conseguente frustrazione del giocatore.
Sotto il cappello di un videogioco sono sintetizzati molti aspetti quali il piacere sensoriale (lo stesso che si prova nel leggere un bel libro o vedere un bel film), una soddisfazione estetica, lo sfogo delle proprie emozioni. Infine, ma non per importanza, i giocatori interagiscono secondo varie modalità competitive o cooperative; da tali interazioni scaturiscono emozioni – anche nuove – da riconoscere e gestire. L’interazione assurge così a potente strumento di autoregolamentazione e promuove l’autoefficacia, favorendo così anche lo sviluppo dell’intelligenza emotiva. Inoltre, quando esiste, la narrazione assolve un ruolo particolarmente importante nei giochi di ruolo. Altri videogiochi, in cui manca una struttura narrativa, si concentrano su altri aspetti, ad esempio su sfide cognitive, sensoriali e motorie associate a quelle forme di gioco.
In tale prospettiva, i videogiochi vanno anche a soddisfare bisogni di base, quali la gratificazione, la capacità di superare la frustrazione della sconfitta e quindi di sviluppare una maggiore resilienza, la socialità, lo sviluppo di una propria identità.
Grazie a queste esperienze intense immersive, il videogioco si trasforma quindi in una scuola di apprendimento da trasferire nella vita reale.
Altro aspetto da considerare nel videogioco è il ruolo dell’avatar. Quest’ultimo assolve una funzione chiave in quanto strumento proiettivo. Infatti, all’interno della narrativa proposta dal gioco, il soggetto agisce tramite il proprio avatar. Esso gli fa da specchio riguardo alle emozioni esperite, alle proprie ambizioni e aspettative, fantasie, sentimenti, ecc., che scaturiscono durante il gioco. Il mondo reale frequentemente ci impone di dissimulare, cioè di evitare di mostrarsi per come si è o per come si vorrebbe essere: dunque l’avatar nel videogioco può consentire di sfogare le proprie fantasie identitarie e l’esplorazione di ruoli inaccessibili nella realtà, le emozioni e i sentimenti inconfessabili. Psicologicamente ciò permette di fare esperienze comunque significative, traendone magari degli insegnamenti da trasporre nella vita reale.
Messaggio pubblicitario La Dottoressa Carissoli illustra i risultati di due ricerche condotte su una popolazione giovanile. In particolare una survey con ragazzi tra i 15 e i 18 anni, il cui campione era costituito da 500 adolescenti raggruppati per ore di gioco svolte durante la giornata. Di particolare rilievo, gli “hardgamers”, cioè i giovani che trascorrevano oltre 3 ore al giorno con i videogames, e i “moderate gamers”. I risultati convalidano che l’attività dei videogiochi promuove l’autoefficacia, la resilienza, la capacità di gestire le proprie emozioni. Un aspetto interessante è che, se gli “hardgamers” sviluppano maggiori competenze, dall’altro si crea un trade-off tra acquisizione di competenze e benessere individuale. Invece, è risultato che i “moderate gamers”, hanno una vita più articolata di esperienze, conoscenze, un arricchimento personale che ne accresceva il loro benessere.
Pertanto un fuoco d’attenzione è da porre sulla circostanza che solo un gioco moderato accresce il benessere personale.
Dai risultati validati emerge inoltre che il gruppo sperimentale rispetto a quello di controllo è rimasto molto interessato, soddisfatto e sorpreso nel percepire il videogioco – ancorchè molto semplice – in una diversa prospettiva, dove l’esperienza del gioco creava tanti nuovi spunti mai scandagliati prima di allora in un videogioco.
Alla luce di tali riflessioni e risultati si evince come il videogioco possa diventare uno strumento terapeutico. Ma a una condizione: che si abbiano obiettivi precisi. Un esempio per tutti: se il problema del paziente è l’ansia e lo stress, l’obiettivo del videogioco deve essere quello di rilassare.
In altri termini, ogni viedeogioco è un grande cappello all’interno del quale possono trovarsi tante cose, ma lo snodo cruciale è l’individuazione di ciò che serve in relazione agli obiettivi.