La psicologia e l’esplorazione degli stati emotivi di sofferenza legati alle guerre

In questi giorni di guerra tra Russia e Ucraina, oltre a essere addolorati per i lutti e preoccupati per gli esiti di un evento azzardato e rovinoso possiamo dedicare qualche pensiero a quel che potrà fare la psicologia clinica per alleviare le pene emotive che accompagnano questo conflitto e soccorrere chi ne è vittima.

Ripercorriamo il percorso che ha fatto la psicologia per esplorare gli stati emotivi di sofferenza legati alla guerra e fornire un’ipotesi di cura per i sofferenti. Queste nozioni cliniche e scientifiche sono utili in sé e inoltre ci ricordano che gli studenti in psicologia, a cominciare da quelli che frequentano la SFU, si preparano per svolgere professioni di assistenza personale e sociale, professioni che in periodi di conflitto militare diventano particolarmente importanti. Questa è una nozione semplice che non possiamo dimenticare, poiché ci richiama a una nostra responsabilità precisa, che è quella di fornire assistenza a chi soffre psicologicamente ed emotivamente. Questa consapevolezza, unita a competenza e professionalità, ci può preparare a fornire questo servizio assistenziale alla società umana e a tutti i pazienti.

L’interesse della psicologia scientifica per le conseguenze emotive della guerra nacque un secolo fa, dopo il primo conflitto mondiale. Fu solo in quell’occasione che ci si rese conto di quanto fosse estrema l’esperienza mentale dello scontro bellico, della situazione in cui uccidere non è più un tabù ma diventa una richiesta sociale ed essere uccisi non è il frutto di un’azione condannata e rifiutata dalla comunità ma è la conseguenza di un comportamento approvato e volontariamente organizzato. Un esercito è un gruppo di persone legalmente e apertamente addestrato per uccidere e non una banda che opera nella disapprovazione generale e nell’illegalità. Che succede alla mente umana quando uccidere è richiesto e non vietato e quando essere uccisi diventa un evento possibile nella quotidianità e non un orrore eccezionale? La normalità trasforma l’orrore in un evento ancora più anormale perché la minaccia e il pericolo di morte diventano la regola di vita e non il caso estremo e la sopravvivenza diventa il problema giornaliero che va a sostituire i guai quotidiani sul lavoro o nelle relazioni.

Che questa esperienza fosse estrema e non normale diventò chiaro quando gli psichiatri si resero conto che i soldati che tornavano dal fronte con la nevrosi di guerra erano inespressivi e con lo sguardo fisso, in preda a pianti incontrollabili, urla, perdita di memoria, paralisi fisica e mancanza di reattività (Herman, 1992). Insomma, i soldati mostravano, per lo stress da combattimento, stati somatici e dissociativi poveri di verbalizzazione che sfociavano in comportamenti disorganizzati e caotici (van der Kolk, Weisaeth e van der Hart, 1996).

Questa nuova consapevolezza stimolò lo sviluppo di un soccorso psicologico per aiutare i sofferenti a superare questa condizione. Non accadde subito. Si dovette attendere il 1923, cinque anni dopo la fine della guerra, perché Abram Kardiner iniziasse a trattare i veterani di guerra traumatizzati in una maniera nuova. Kardiner, invece di rimproverare i soldati di debolezza di carattere come imponeva la cultura militarista dell’epoca, capì che gli individui erano sensibili alle atrocità della guerra e che i sintomi traumatici erano normali reazioni a una situazione insopportabile. Per primi, Kardiner e Herbert Spiegel sostennero che gli interventi più efficaci fossero psicologici: l’ipnosi e la condivisione dell’esperienza traumatica tra i commilitoni (Herman, 1992, p. 25) che poi portarono all’uso di gruppi di stress debriefing (Shalev & Ursano, 1990, citato in van der Kolk, Weisaeth, et al., 1996, p. 59).

Da allora si sono sviluppati vari modelli di cura. I primi modelli furono teorici, aperti dalle riflessioni di Freud scambiate nel suo carteggio con Einstein (1934). Riflessioni piuttosto pessimistiche e che portarono Freud a ritenere che l’uomo non potesse evitare il suo destino distruttivo fino a farlo diventare una pulsione, appunto di morte. Tuttavia, accanto a questa pulsione vi era anche la tensione civilizzatrice dell’identificazione con l’altro, ciò che oggi chiameremmo empatia. Per vie diverse arrivò a simili conclusioni pessimistiche Jung sia in Wotan (1936) che in Dopo la Catastrofe (1946) in cui parla di forme di regressione spirituale verso culti primitivi. Il modello successivo di Fromm rielaborò il concetto di distruttività umana (1973) facendo a meno della pulsione di morte e invece richiamandosi ai modelli evoluzionistici ed etologici, in cui l’aggressività guerriera ha una funzione difensiva che poi diventa disfunzionale e disadattativa quando il bisogno assoluto di protezione e sicurezza diventa distruzione dell’altro.

Nel campo clinico ci furono gli esperimenti di Bion e di Foulkes (1991) sui gruppi svolti nell’ospedale militare di Northfield durante la seconda guerra mondiale. Oggi le principali proposte di trattamento comprendono i modelli terapeutici cognitivo comportamentali (Foa e collaboratori, 2010), corporeo-esperienziali (Ogden e Fisher, 2015), i modelli psicodinamici (Bromberg, 1993), i modelli cognitivi (Foa e collaboratori, 2010) e infine l’eye movement desensitization and reprocessing (EMDR, Shapiro, 2002). Tra queste, il trattamento cognitivo comportamentale vanta i migliori dati di efficacia per gli adulti e gli adolescenti e l’EMDR per gli adolescenti. Il trattamento cognitivo comportamentale aiuta il paziente a rielaborare le memorie traumatiche attraverso il lavoro sui pensieri espliciti e l’esposizione a esperienze che stimolano i ricorsi traumatici. L’EMDR favorisce, tramite la stimolazione bilaterale mediante movimenti oculari saccadici, il ripristino almeno parziale delle normali funzioni di elaborazione dei ricordi traumatici.

Queste considerazioni finali forse potranno suonare troppo pratiche. Dalla psicologia ci si aspetta anche una parola chiarificatrice sulla nostra natura umana, così spesso incline alla violenza. Eppure, queste considerazioni così pragmatiche ci sembrano le più opportune. Come ho già scritto all’inizio di questo pezzo, la professione di psicologo specializzato in clinica ci invita a fornire assistenza a chi soffre emotivamente. Gli studi presso la Sigmund Freud University ci indicano questa direzione e questa indicazione è forse più efficace delle pur doverose considerazioni morali e sociali che si possono fare su un evento così orribile e disumano. Operiamo per sanare le ferite e poi, quanto tornerà la pace, torneremo anche noi a riflettere sulla natura psicologica dell’aggressività e della violenza.


A cura di Giovanni M. Ruggiero, Full Professor in Cultural Psychology and Psychotherapy alla Sigmund Freud University Vienna/Milano, Direttore della Ricerca presso Sigmund Freud University Milano


Bibliografia

Bromberg P. M., (1993). Psicoanalisi interpersonale e psicologia del Sé: un confronto clinico. Psicoterapia e Scienze Umane, 27(4), 123-140.

Foa, E. B., Keane, T. M., Friedman, M. J., & Cohen, J. A. (a cura di). (2010). Effective Treatments for PTSD: Practice Guidelines from the International Society for Traumatic Stress Studies. Londra: Guilford Press.

Foulkes, S. H. (1991). Introduzione alla Psicoterapia Gruppoanalitica. Roma: EUR.

Freud, S. (1933). Perché la guerra? Parigi: Istituto Internazionale di Cooperazione Intellettuale / Società delle Nazioni.

Fromm, E.  (1973). Anatomia della Distruttività Umana. Milano: Mondadori.

Herman, J. L. (1992), Complex PTSD: A syndrome in survivors of prolonged and repeated trauma. Journal of Traumatic Stress, 5(3), 377-391.

Jung, C. G. (1936). Wotan. Neue Schweizer Rundschau: Wissen und Leben, March, 663-675

Jung, C. G. (1946). Dopo la Catastrofe. In Opere 10/2, 1998. Torino: Bollati Boringhieri.

Ogden, P., & Fisher, J. (2015). Sensorimotor psychotherapy: Interventions for trauma and attachment (Norton series on interpersonal neurobiology). New York: Norton & Company.

Shapiro, F. E. (2002). EMDR as an Integrative Psychotherapy Approach: Experts of Diverse Orientations Explore the Paradigm Prism. Washington, DC: American Psychological Association.

van der Kolk, B.A., Weisaeth, L., & van der Hart, O. (1996). History of trauma in psychiatry. In B. A. van der Kolk, A. C. McFarlane & L. Weisaeth, (a cura di), Traumatic Stress: The Effect of Overwhelming Experience on Mind, Body, and Society (pp. 47-74). New York, NY, USA: Guilford.

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