I pensieri automatici negativi
Spesso potremmo essere portati a pensare che il modo in cui ci sentiamo e in cui ci comportiamo sia una conseguenza diretta delle esperienze che viviamo, secondo una modalità stimolo – risposta, dove lo stimolo è qualcosa che ci accade e la risposta è costituita dalle nostre emozioni e dai nostri comportamenti a seguito dell’evento. Tuttavia, secondo il modello teorico alla base della Terapia Cognitivo-Comportamentale (J. S. Beck, 2013), tra l’evento e la nostra risposta emotiva e comportamentale in realtà c’è il nostro zampino – per quanto possa essere inconsapevole: secondo questo modello, infatti, il comportamento e le risposte emotive e fisiologiche agli eventi esterni e alle situazioni non sono direttamente causati da questi eventi o situazioni “di per sé”, ma dalle nostre percezioni e interpretazioni di essi.
Il modo in cui percepiamo la realtà, quindi, influenza il nostro modo di sentire e di comportarci. Più nello specifico, il modello teorico presuppone che, quando stiamo affrontando un periodo di sofferenza emotiva, è perché tendiamo a dare un’interpretazione immediata delle situazioni che viviamo attraverso i cosiddetti “pensieri automatici negativi” (A. T. Beck, 1963): si tratta di pensieri brevi, stenografici, che emergono spontaneamente e rapidamente, e non sembrano essere preceduti da riflessione o ragionamento. Essi risultano spesso distorti, sostanziandosi in errate percezioni di situazioni ed eventi, ma nonostante questo sono generalmente accettati come plausibili, dando per scontata la loro accuratezza: per questo motivo tali pensieri risultano largamente maladattivi, in quanto causano stress emotivo e problemi comportamentali (Montano, 2018). La maggior parte delle persone non è consapevole della loro presenza; la buona notizia, però, è che ci si può “allenare” a identificarli e monitorarli, e questo è proprio uno degli obiettivi che si pone la Terapia Cognitivo-Comportamentale.
Le distorsioni cognitive
I pensieri automatici negativi possono emergere con una maggiore frequenza se tendiamo a valutare la realtà attraverso quelle che Aaron T. Beck – uno dei fondatori della terapia cognitiva – definiva “distorsioni cognitive”, ovvero errori di pensiero sistematici e tipici che possono viziare il modo in cui interpretiamo ciò che ci accade (A. T. Beck, 1963, 1976). Alcune delle più comuni sono:
- Pensiero tutto o nulla, che consiste nel considerare le cose in termini di categorie che si escludono a vicenda, senza possibili vie di mezzo (ad esempio, “Se non sono un completo successo, sono un fallimento”);
- Squalifica del positivo, che consiste nel minimizzare la rilevanza delle proprie esperienze, azioni e qualità positive (ad esempio, “Aver preso il massimo dei voti in questo esame non significa che io sia bravo, sono stato solo fortunato”);
- Astrazione selettiva, che consiste nel prestare un’attenzione esagerata a un solo dettaglio negativo, dimenticandosi di considerare l’intero quadro (ad esempio, “Visto che questo esame non è andato bene – anche se ho superato tutti gli altri brillantemente – significa che sto facendo un lavoro scadente”);
- Personalizzazione, che consiste nel credere che gli altri si stiano comportando negativamente a causa propria, senza considerare spiegazioni più probabili e plausibili (ad esempio, “Il controllare mi ha risposto in modo sgarbato perché ho fatto qualcosa di sbagliato”).
Esaminiamo un esempio per comprendere, in modo più pratico, come il modo in cui interpretiamo la realtà può influenzare le nostre emozioni e il nostro comportamento: incrociamo un nostro amico per strada e lo salutiamo; tuttavia, il nostro saluto non viene ricambiato. Se valutiamo questa situazione attraverso la lente della personalizzazione, è facile che emerga il pensiero “Il mio amico non mi ha salutato perché ce l’ha con me, devo aver fatto qualcosa di sbagliato”. Questo pensiero, probabilmente, avrà un impatto negativo sul nostro stato emotivo, suscitando emozioni come tristezza (Sono un pessimo amico…) o ansia (Aiuto! Cosa ho combinato?), e favorendo una risposta comportamentale disadattiva – magari portandoci a isolarci e a non contattare il nostro amico anche se ci farebbe piacere vederlo. Se provassimo a interpretare diversamente la situazione (ad esempio, “Magari il mio amico non mi ha salutato perché non mi ha visto, senza occhiali è una vera talpa e in quel momento non li stava indossando. E poi poteva essere perso nei suoi pensieri, mi sa che aveva anche le cuffie…”), l’effetto su di noi sarebbe completamente diverso!
L’origine dei pensieri automatici negativi: gli schemi
Ma da dove nascono i pensieri automatici negativi? Secondo il modello cognitivo, la loro origine risiede nei cosiddetti schemi, che possono essere descritti come “strutture cognitive interne, relativamente durevoli, che vengono utilizzate per organizzare le nuove informazioni, determinando come i fenomeni sono percepiti” (Clark et al., 1999). Essi sono inflessibili, chiusi e relativamente concreti; originano nelle prime fasi di sviluppo di un individuo, a partire dalla percezione degli atteggiamenti altrui nei propri confronti, e sono poi modellati dalle esperienze dell’adolescenza e dell’età adulta. Il loro contenuto è rappresentato da convinzioni profonde, negative e generalizzate riferite ad attributi del sé, degli altri e del mondo, denominate “credenze di base” (J. S. Beck, 1995). Le principali sono le credenze di inadeguatezza, le credenze di non amabilità e le credenze di mancanza di valore (J. S. Beck, 2013). Anche se latenti o inattive in un determinato momento, le credenze di base vengono attivate da particolari situazioni analoghe a quelle delle prime esperienze che ne hanno favorito lo sviluppo: una volta attivate, esse interferiscono con la capacità di valutare gli eventi in modo obiettivo, rendendo più probabile l’emergere di pensieri automatici negativi che vanno a rinforzarle ulteriormente (Montano, 2018).
Essere agenti attivi del proprio cambiamento
Nella Terapia Cognitivo-Comportamentale, il paziente ricopre una posizione di agente pienamente attivo e consapevole nel suo trattamento (Ruggiero et al., 2022). E siccome, almeno inizialmente, la maggior parte dei pazienti non è consapevole del fatto che i pensieri automatici negativi sono responsabili di emozioni sgradevoli e conseguenze comportamentali indesiderate, il primo passo è allenare la propria capacità di riconoscerli. Per farlo, spesso si utilizza la tecnica dell’ABC (A. T. Beck, 1976; Ellis, 1957), una forma di automonitoraggio che aiuta il paziente ad aumentare la sua consapevolezza della connessione tra situazioni attivanti, pensieri disfunzionali e conseguenze emotive e comportamentali. Si inizia individuando una situazione di partenza, ovvero l’evento attivante; si procede quindi con l’identificazione dei pensieri automatici sorti in risposta all’evento (chiedendo “Cosa le passava per la testa in quel momento?”), e successivamente con l’identificazione delle emozioni e dei comportamenti che tali pensieri hanno suscitato nell’individuo.
Una volta che il paziente ha identificato i propri pensieri automatici negativi nelle situazioni problematiche, dando così un senso alle sue reazioni emotive e comportamentali disfunzionali, è possibile iniziare il vero e proprio processo di cambiamento attraverso la cosiddetta ristrutturazione cognitiva (Montano, 2018): essa può essere definita come “l’insieme delle strategie di intervento collaborative, strutturate e orientate all’obiettivo, focalizzate sull’esplorazione, la valutazione e la sostituzione dei pensieri, delle interpretazioni e delle credenze maladattive che mantengono i disturbi psicologici” (Clark, 2013). In altre parole, la ristrutturazione cognitiva consiste nel notare il proprio pensiero, rivalutarne il contenuto in termini di appropriatezza, veridicità, utilità o logica e trovare a questo delle valutazioni alternative, imparando ad assumere una distanza critica dai propri pensieri. Per raggiungere questo obiettivo, possono risultare utili sia interventi puramente cognitivi (come il disputing) che esercizi comportamentali (come l’esposizione comportamentale), i quali aiutano il paziente a disconfermare i propri pensieri disfunzionali e ad apprendere nuove informazioni.
A cura di Silvia Carrara, MSc e dottorando di ricerca presso la Sigmund Freud University.
Bibliografia
- Beck, A. T. (1963). Thinking and Depression: I. Idiosyncratic Content and Cognitive Distortions. Archives of General Psychiatry, 9(4), 324–333. https://doi.org/10.1001/archpsyc.1963.01720160014002
- Beck, A. T. (1976). Cognitive Therapy and the Emotional Disorders. International Universities Press.
- Beck, J. S. (1995). Cognitive therapy: Basics and beyond. Guilford Press.
- Beck, J. S. (2013). La Terapia cognitivo-comportamentale. Astrolabio Ubaldini.
- Clark, D. A. (2013). Cognitive Restructuring. In S. G. Hofmann (A c. Di), The Wiley Handbook of Cognitive Behavioral Therapy (pp. 1–22). John Wiley & Sons, Ltd. https://doi.org/10.1002/9781118528563.wbcbt02
- Clark, D. A., Beck, A. T., & Alford, B. A. (1999). Scientific Foundations of Cognitive Theory and Therapy of Depression. John Wiley & Sons Inc.
- Ellis, A. (1957). Rational psychotherapy and individual psychology. Journal of Individual Psychology, 13, 38–44.
- Montano, A. (2018). Terapia cognitiva. In G. Melli & C. Sica, Fondamenti di psicologia e psicoterapia cognitivo comportamentale. Edizioni Centro Studi Erickson.
- Ruggiero, G. M., Caselli, G., & Sassaroli, S. (2022). La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale. Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro. Erickson.